L'unione monetaria africana


Il franco CFA


 

Il franco della “Communauté Financière Africaine” (“comunità finanziaria africana”, CFA) fu introdotto nel 1945 nelle colonie francesi dell’Africa occidentale: oggi è una moneta usata da quattordici paesi dell’Africa occidentale e centrale, gestita dalla Banca centrale francese e con un cambio fisso stabilito con l’euro (un euro è pari a 655,957 franchi CFA).

I paesi membri dell’Unione dell’Africa occidentale, in verde (Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal e Togo), e in rosso quelli dell’Unione dell’Africa centrale (Camerun, Repubblica dell’Africa Centrale, Chad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon).

I sostenitori del franco CFA si trovano soprattutto tra gli economisti francesi e gli esponenti dei governi e delle classi dirigenti dei paesi che lo adottano. Il loro principale argomento a favore della moneta è che, essendo vincolata all’euro, è stabile. Questo garantisce prezzi costanti, evita scossoni monetari, come improvvise crescite di inflazione, e permette scambi più semplici e sicuri con la Francia e il resto dell’Unione Europea. Per dimostrare la bontà del sistema viene spesso fatto l’esempio della Guinea, che abbandonò l’unione monetaria per poi farvi rapidamente ritorno a causa dell’inflazione e dell’instabilità che l’avevano colpita.

Altrettanto spesso, però, il franco CFA è criticato da intellettuali africani ed europei ed esponenti di partiti e movimenti anticolonialisti poiché è accusato di costituire un freno allo sviluppo di quei paesi e di essere uno strumento di controllo indiretto da parte della Francia. Da un lato, infatti, il cambio fisso permette alle élite urbane di spendere facilmente il loro denaro importando beni di lusso europei (acquistati molto spesso con i soldi frutto della corruzione endemica nella regione); dall’altra questo sistema permette alle multinazionali francesi di investire nei paesi africani senza temere un’improvvisa svalutazione.

I produttori che vorrebbero esportare i loro beni in Europa, però, hanno grosse difficoltà, poiché il cambio fisso rende troppo costose le loro merci (una barriera che invece è vista di buon occhio da chi, come gli agricoltori francesi ed europei, rischia di soffrire la concorrenza dei produttori africani). Il fatto che i paesi membri dell’unione monetaria debbano tenere le loro riserve di valuta estera depositate sui conti della Banca centrale francese, un grave problema secondo Di Maio e Di Battista, è in realtà una questione relativamente secondaria. È vero che la Banca centrale francese restituisce in interessi ai paesi africani meno di quanto guadagna investendo il denaro depositato sui suoi conti, ma si tratta in ogni caso di cifre piuttosto contenute. In tutto, i depositi ammontano a circa 7 mila miliardi di franchi CFA, ossia poco più di 10 miliardi di euro che fruttano abbastanza denaro da pagare lo 0,5 per cento degli interessi sul debito pubblico francese.

Alla fine del 2017, durante un viaggio in Africa occidentale, il presidente francese Emmanuel Macron annunciò la sua intenzione di riformare il franco CFA sulla base delle indicazioni che sarebbero arrivate dagli stati che lo adottano. Disse inoltre che sarebbe stato favorevole alla sua soppressione, se fosse stata quella la richiesta. Da allora però nessun paese membro dell’unione ha fatto richiesta per uscirne.

Alle critiche provenienti in genere da sinistra contro la politica “neocoloniale” della Francia si sono aggiunte di recente, in particolare in Italia, critiche provenienti da destra, da ambienti complottisti, “sovranisti” e “no euro”. Sono critiche più limitate e si occupano essenzialmente di legare il problema dell’immigrazione al franco CFA: sarebbe la presenza di un’unione monetaria a causare i problemi economici degli stati africani, nello stesso modo in cui l’euro causa problemi ai paesi dell’Europa meridionale. A sua volta, essendo causa di sottosviluppo, la moneta unica africana sarebbe la principale causa dell’emigrazione, che rappresenta un problema, ancora una volta, soprattutto per i paesi dell’Europa periferica.